Rubrica di Dario – N.3: Come scegliere il principio attivo (Prima parte)

Il principio attivo è l’ingrediente fondamentale dell’esca rodenticida, e cioè la sostanza che, se ingerita in una dose sufficiente dall’animale bersaglio, è in grado di causarne la morte.

I principi attivi utilizzati nel corso della storia sono i più disparati. Testimonianze storiche parlano dell’uso di estratti di piante (soprattutto l’elleboro) nell’Antica Roma per uccidere topi e ratti, mentre l’estratto di scilla rossa (Urginea maritima), una pianta mediterranea, è stato impiegato fino al secolo scorso per lo stesso scopo. Fino agli anni ’50 del secolo scorso i rodenticidi avevano tutti azione acuta, e cioè portavano a morte il roditore dopo poche ore dall’ingestione della dose letale di tossico. Ciò presentava l’inconveniente di suscitare ben presto nella popolazione una forte diffidenza nelle esche tossiche, rendendone difficile il controllo.

Due eventi indipendenti, uno risalente a più di cinquant’anni fa, l’altro ben più recente, hanno però cambiato drasticamente lo scenario di riferimento dei rodenticidi.

Il primo è stato l’avvento degli anticoagulanti, una classe di principi attivi derivati sintetici delle idrossicumarine, i quali, a partire dagli anni ’50, hanno trovato crescente diffusione nel mercato mondiale. Paradossalmente, il successo di tali principi attivi risiedeva (e risiede tutt’ora) nel ritardo con cui il meccanismo d’azione provoca dapprima il malessere e successivamente la morte dell’individuo. Tale ritardo, quantificabile in un lasso di tempo di alcuni giorni (tra 2 e 7) fa sì che gli altri individui del nucleo familiare o dell’intera colonia non siano in grado di associare l’ingestione del cibo con il malore, e questo evita l’insorgere di una diffidenza verso l’esca rodenticida.

Il secondo evento, assai più recente, è costituito dall’entrata in vigore della Direttiva Biocidi, la cui applicazione ha, di fatto, estromesso dal mercato tutti i rodenticidi presenti fino a pochi anni fa sul mercato (fosfuro di zinco, norbormide), ad eccezione degli anticoagulanti.

Ciò ha fatto sì che, nonostante gli innegabili problemi connessi con il loro uso, ad oggi non vi sia alcuna alternativa concreta all’uso degli anticoagulanti, con la conseguenza che la scelta del principio attivo deve necessariamente ricadere su una sostanza di questa famiglia.

Tutti gli anticoagulanti sono provvisti dello stesso meccanismo d’azione: essi bloccano la sintesi epatica della vitamina K, un fattore essenziale della coagulazione. Tuttavia, la presenza di scorte di tale sostanza nel fegato garantiscono all’individuo un limitato periodo di autonomia, quantificabile appunto in alcuni giorni. Una volta terminate le scorte “endogene”, l’individuo avverte i primi sintomi, consistenti in emorragie localizzate in varie parti del corpo; l’estendersi delle emorragie agli organi vitali provoca prima il malore e successivamente la morte.

Nel prossimo contributo entreremo nel cuore del problema, e parleremo di come si sceglie il principio attivo rodenticida.

Foto: Urigea marittima sull’isola di Zannone – Dario Capizzi

Rubrica di Dario – N.2: Associare due principi attivi migliora l’efficacia di un rodenticida?

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L’associazione di più principi attivi è una pratica diffusa nel pest control, e riguarda per lo più famiglie di biocidi diverse dai rodenticidi, soprattutto gli insetticidi. In questi ultimi, infatti, si assiste spesso alla combinazione di due principi attivi nello stesso formulato, e ciò viene fatto per rispondere a due diverse esigenze, combinando quindi sostanze diverse. Il primo obiettivo è quello di combinare un’azione abbattente ad una residuale, garantendo quindi sia una buona efficacia iniziale del biocida che un suo effetto prolungato. Il secondo è quello di impedire lo sviluppo di fenomeni di resistenza, ed in questo caso ad essere abbinati sono soprattutto principi attivi di diverse famiglie. La probabilità che un individuo sia resistente a due diverse famiglie di principi attivi, infatti, è molto bassa.

Viene a questo punto spontaneo domandarsi se questi ragionamenti siano applicabili o meno anche per i rodenticidi, soprattutto in considerazione del fatto che in commercio esistono formulati che prevedono proprio l’abbinamento di due principi attivi. Negli scorsi decenni in commercio esistevano formulati che contenevano l’abbinamento di warfarin e sulfachinossalina, un farmaco veterinario, sulla cui maggior efficacia rispetto alla formulazione contenente il solo warfarin, tuttavia, non vi era accordo unanime.

Attualmente vi sono in commercio formulati che abbinano due differenti anticoagulanti, il cui valore aggiunto, a detta dei distributori, consisterebbe nella minore probabilità di sviluppare resistenza. In realtà, l’associazione di due principi attivi anticoagulanti non comporta alcun vantaggio. Si tratta, infatti, di principi attivi della stessa famiglia, provvisti del medesimo meccanismo d’azione, la cui associazione non garantisce quindi alcun beneficio aggiuntivo rispetto all’azione del più potente dei due per aggirare il fenomeno della resistenza.

Almeno in teoria, l’unica associazione che potrebbe avere senso (fermo restando che necessiterebbe di essere opportunamente sperimentata) sarebbe quella fra un anticoagulante ed uno dei vecchi veleni acuti, provvisti, questi sì, di meccanismi d’azione differenti. Tuttavia, come noto, i rodenticidi acuti non sono disponibili sul mercato, e tale possibilità rimane, appunto, solo teorica. Qualora fosse possibile, comunque, comporterebbe la rinuncia al principale punto di forza degli anticoagulanti, e cioè quello del ritardo con cui si manifestano i sintomi dell’intossicazione rispetto all’ingestione della dose letale, che è poi la chiave del loro successo.