Protezione delle derrate alimentari: i modi rudi dei parassiti (Prima parte)

Scena n.1 – Scontro sul sacco di farina

Interno giorno – deposito prodotti finiti in attesa di spedizione

Nel deposito numero 2, là dove si trovano i grandi imballaggi pronti per la spedizione, sul penultimo bancale dal basso, da uno strappo in un sacco da 25 chili fuoriesce un vermetto. Per la precisione si tratta di una larva di tignola grigia della farina. Il corpo carnoso bianco sfumato è appena un po’ più scuro della farina, la sua testa brunastra e i suoi peli sono ricoperti di farina.

Il vermetto sta giusto raggiungendo la lettera «s» della scritta «farina semibianca per treccia» quando improvviso sopraggiunge un attacco dall’alto: un icneumonide si avvicina, misura circa 4 mm, e attacca la larva di tignola molto più grande di lui, lunga circa 2,5 cm. Questo icneumonide è specializzato nella caccia alla tignola della farina.

La scienza gli ha dato il nome certamente bello ma difficile da ricordare Habrobracon hebetor. Il nostro H.h. non perde tempo, deve sbrigare una faccenda urgente. Attacca lateralmente la larva e le conficca il suo lungo pungiglione tra due segmenti del gigantesco corpo. La larva si contorce, la testa si muove verso la vespa ma non è abbastanza veloce o non dispone di un apparato boccale adatto a contrattaccare. Alla larva della tignola, che pian piano vien meno per il veleno della vespa, vengono inferte altre due o tre punture fino a quando è completamente paralizzata e incapace di difendersi.

La vespa a questo punto succhia un po’ del succo vitale del corpo inerme della larva e, rinvigorita, inizia il lavoro per il quale ha paralizzato la larva: depone diverse uova all’esterno del corpo della stessa. Dalle uova usciranno larve di vespa che si nutriranno della larva di tignola – l’animale ospite – svuotandola man mano e crescendo a sue spese. Una volta grandi abbastanza, le larve si allontaneranno dai resti dell’ospite, chiudendosi in un bozzolo dal quale poi ne uscirà un icneumonide finito, adulto e sessualmente maturo. Il ciclo di vita dell’icneumonide Habrobracon hebetor si porterà a termine in circa 30 giorni.

Parassitoidi

Scena n.2 – Uova per i parassitoidi

Interno giorno – Secondo piano, mulino A

Al secondo piano, nel mulino A, si aggira un lontano parente di H.h., il Trichogramma evanescens , di dieci volte più piccolo ed infatti misura solo 0,4 mm. Anch’esso è capace di compromettere la sopravvivenza delle tignole interrompendo il loro ciclo vitale. L’imenottero T.e. tuttavia si attiva in uno stadio di sviluppo precedente rispetto a H.h. e non ha bisogno di attaccare le larve di tignola: esso infatti parassitizza le uova dell’ospite anziché le larve. (È per questo che è rimasto così piccolo o – al contrario – la sua specialità sono le uova proprio perché è così piccolo? – Chiedetelo a Darwin!).

T.e. dunque saltella e svolazza (non è un gran volatore) attorno al grande separatore o «scuotitore» nel quale avviene la prima pulizia del frumento. Trova ciò che cerca nella base della macchina, nei sostegni ammortizzati dei cuscinetti oscillanti, su un ferro a T dove non si riesce a pulire perché non arriva nessuna spazzola, nessuna scopa e nessuno strofinaccio. L’imenottero trova le uova di una tignola della farina. Salta su un uovo, gioiosamente vi si arrampica e ridiscende e infine vi si siede sopra e con forti movimenti ritmici della parte posteriore del suo corpo conficca l’ovopositore nel guscio esterno elastico dell’uovo della tignola.

Da questo uovo non uscirà mai una larva di tignola della farina bensì la larva dell’assassina della larva della tignola, l’imenottero Trichogramma evanescens. Il nostro T.e. però non parassita un uovo solo, anzi, perfora tutte le uova trasformandole in uova di Trichogramma.

Fantascienza o realtà?

Sembrano due scene di un film di fantascienza mentre invece sono realtà. In questo modo si svolge milioni di volte e da milioni di anni la lotta tra i parassiti e i loro ospiti. Laddove si tratta di ospiti che attaccano le nostre colture, che infastidiscono i nostri animali domestici o che si nutrono delle nostre scorte alimentari, i parassiti ci sono utili e perciò li chiamiamo insetti utili o parassitoidi.

Da tempo sia la ricerca che gli operatori commerciali coinvolti, hanno cercato il modo di proteggere le derrate tramite gli insetti utili.

Un progetto Svizzero finanziato dal fondo Coop per lo sviluppo sostenibile ha ora permesso l’impiego di insetti utili contro i parassiti delle derrate immagazzinate. È ora disponibile un set di quattro insetti utili contro tutta una serie di organismi nocivi.

Il successo è il risultato del lavoro di tre partner di progetto che hanno collaborato per tre anni: Andermatt Biocontrol AG ha sviluppato i sistemi di allevamento, l’impresa specializzata in lotta antiparassitaria Desinfecta si è occupata del rilascio sperimentale degli insetti e il FiBL (Istituti di ricerca dell’agricoltura biologica) si è occupato della direzione del progetto e della comunicazione.

Gli insetti utili (parassitoidi) impiegati negli esperimenti in Svizzera sono specie presenti in natura e gli esperti di Andermatt Biocontrol li hanno raccolti nei magazzini di cereali e nelle aziende di trasformazione o acquistati presso piccoli allevamenti. In seguito li hanno riprodotti in allevamenti di massa.

Lariophagus distinguendus auf Korn

Rubrica di Dario n.14: La peste, i ratti e le pulci: realtà o finzione? (Seconda e ultima parte)

Dunque, qualcuno mette in dubbio che a causare le epidemie di peste nel corso della storia siano stati i ratti, e che addirittura di peste non si sia trattato, ma di qualcos’altro.

Ma di cosa, allora? L’ipotesi avanzata negli anni scorsi da due ricercatori inglesi, Duncan e Scott, è che il responsabile della Morte Nera, l’epidemia che tra il 1348 e il 1350 colpì l’Inghilterra e l’intera Europa causando milioni di morti, sia stato non il batterio Yersinia pestis, ma un virus, simile all’odierno Ebola, definito appunto un “Ebola-like” virus.

Gli argomenti su cui si fonda l’ipotesi dei ricercatori inglesi sono diversi.

In primo luogo, i ratti non erano autoctoni in Inghilterra, né si hanno notizie di popolazioni particolarmente abbondanti all’epoca.

Mancano inoltre testimonianze di grandi morie di ratti, che ci sarebbero dovute essere, visto che le prime vittime della peste sono proprio i ratti.

Un altro punto critico è l’efficacia delle misure di quarantena: isolando i nuclei colpiti, il contagio si fermava. Questo è logico se si tratta di un patogeno trasmesso da persona a persona, assai meno se i colpevoli sono i ratti e le pulci, che se ne infischiano delle misure di quarantena.

Altro aspetto riguarda la velocità di avanzamento della malattia, quantificata in dieci miglia al giorno, assai superiore a quella stimata per la peste, di pochi metri al giorno. Questo concorda con una malattia provvista di elevata contagiosità, per esempio un virus.

Inoltre, la descrizione dei sintomi che si ritrova sulle cronache dell’epoca fa pensare più ad una febbre emorragica, mentre nelle cronache inglesi (a differenza di quanto avvenne in Italia) non c’è traccia dei caratteristici bubboni. Anche i tempi di incubazione, piuttosto lunghi, fanno propendere più per un virus simile ad Ebola che alla peste (2-5 giorni). Come avrebbe fatto, altrimenti, la peste ad arrivare in Inghilterra tramite le navi? I marinai ammalati sarebbero morti durante il non breve viaggio dall’Italia, da dove si narra fosse partito il marinaio genovese che portò il contagio.

Tuttavia, nonostante questi recenti, intriganti studi, l’ipotesi più accreditata resta ancora quella della peste, ma non nella forma bubbonica, trasmessa dai ratti e dalle loro pulci, bensì in quella polmonare, trasmessa quindi da uomo a uomo tramite aerosol infetto. Ciò è supportato da studi molecolari che sono riusciti ad individuare tracce del batterio nelle ossa di alcuni individui morti proprio nel corso dell’epidemia del XIV secolo. In particolare, sarebbe stata scoperta la presenza di ceppi del batterio oggi estinti.

Una cosa è sicura: quale che sia l’ipotesi che prevarrà, i ratti, almeno per quanto riguarda l’epidemia inglese del XIV secolo, sono innocenti.

Gli elettroinsetticidi e il Grado di Protezione IP – Un breve approfondimento a cura di Colkim e PestWest

Quando si parla di elettroinsetticidi (sia a griglia elettrificata che a colla), è opportuno trattare anche il tema del grado di protezione IP. Tutto il settore della disinfestazione professionale -dal produttore, al PCO, all’utente finale- è informato a riguardo e pienamente consapevole che il modello di trappola installato debba rispondere a quanto richiesto per l’ambiente interessato…

Oppure no?

Il Codice IP, Marchio Internazionale Protezione, IEC standard 60529, a volte interpretato come Marchio Protezione Ingresso, classifica e valuta il grado di protezione fornito da involucri meccanici e quadri elettrici contro l’intrusione di particelle solide (quali parti del corpo e polvere) e l’accesso di liquidi.

La normativa IEC punta a definire gli standard di sicurezza delle parti elettriche. Le due cifre che definiscono il grado IP, indicano la conformità con le condizioni riassunte nella tabella sotto riportata.

Le trappole a luce UV adatte a questi ambienti particolari devono essere progettate e costruite soddisfando i prerequisiti previsti nello Standard di Sicurezza Europeo (European Safety Standard) EN60529:1992. Se non diversamente specificato, il grado di protezione è IP 20 (uguale a quello presente negli uffici). In aree in cui ci sia presenza di polvere o di acqua è richiesto un grado di protezione specifico.

Solitamente l`utente finale sa quale indice di protezione è richiesto e quindi pretenderà una trappola che soddisfi almeno il grado di IP necessario.

Per fare qualche esempio: gli elettroinsetticidi che devono essere installati in esterni, dovranno avere un grado di protezione a partire da IP24. Tale livello li rende idonei per uso anche in fienili, stalle, ecc.

Il grado IP 2X è il massimo grado che una trappola a griglia elettrificata possa avere, perché deve comunque prevedere aperture che permettano agli insetti di entrare all`interno.

Le trappole installate in ambienti molto umidi, o dove possano essere esposte ad un potente getto di acqua, dovranno essere IPX5 o IPX6.

Fatti questi rapidi esempi, è ovvio che la qualità di una trappola, e il grado IP dichiarato, varia a seconda della qualità delle guarnizioni, dei sigillanti in silicone o degli altri componenti utilizzati al suo interno, che possono fare seriamente la differenza nella prestazione e nella sicurezza della trappola.

Sebbene oggi un produttore non sia obbligato a supportare il grado IP dichiarato con test e certificati prodotti da parti terze, PestWest® ha voluto delegare a laboratori indipendenti internazionalmente riconosciuti la certificazione delle proprie lampade, ritenendo tale atteggiamento molto professionale e corretto: un certificato rilasciato da un`azienda indipendente è un modo per garantire che i prodotti testati rispettano effettivamente i requisiti dichiarati.

Per questo motivo possiamo affermare con fierezza che tutti i prodotti PestWest® utilizzano componenti di elevata qualità che sono stati testati per la classificazione IP.

Per garantire che quanto dichiarato sia mantenuto negli anni, PestWest® unisce a un design innovativo, l’utilizzo di guarnizioni in gommapiuma a cellule chiuse e un uso ridotto di sigillanti in silicone.

Questi sono valori aggiunti che permettono all’azienda inglese di differenziarsi da altri prodotti presenti sul mercato, che invece utilizzano elevate quantità di sigillante in silicone, rendendo particolarmente difficile mantenere il medesimo grado IP nel tempo. Infatti, quando la trappola necessita di riparazioni, viene aperta e il silicone si stacca compromettendo il grado di protezione IP originario.

A questo punto, siete sicuri che la trappola che avete appena installato risponda davvero al grado IP richiesto? Colkim e PestWest® sono pronti a fornirvi certificati rilasciati da enti indipendenti attestanti il grado di protezione dichiarato, per supportare il vostro lavoro, e la vostra immagine.

IP Ratings Guide ITALIAN

Rubrica di Dario n.13: La peste, i ratti e le pulci: realtà o finzione? (Prima parte)

È una delle immagini più famose della letteratura del novecento. Siamo a Orano, in Algeria, in un imprecisato periodo negli anni ’40. Nella città, ad un certo punto, si verifica un’imponente moria di ratti. Comincia così, nell’immaginario dello scrittore francese Albert Camus, premio Nobel per la letteratura e autore nel 1947 del romanzo “La peste”, la devastante epidemia che colpisce la città nordafricana. Altri celebri resoconti della letteratura provengono dai “Promessi sposi” del Manzoni, che colloca parte del suo romanzo nella Milano del 1630, colpita da un’epidemia spaventosa, o dal Decamerone di Boccaccio, che riferisce dell’epidemia del XIV secolo.

Naturalmente, la peste non è solo fiction. La malattia è causata dal batterio Yersinia pestis, ed è probabilmente la zoonosi che ha mietuto più vittime nel corso della storia. Le epidemie di peste, soprattutto le più imponenti, quelle del Medio Evo, falcidiavano le popolazioni delle città e dei piccoli centri rurali, uccidendo talvolta più di metà degli abitanti.

Il legame con i roditori, benché sospettato da secoli, è stato acclarato solo alla fine del XVIII secolo, visto che si erano notate grandi morie di ratti proprio in occasione delle epidemie. I ratti, tuttavia, non sono direttamente responsabili della trasmissione del patogeno all’uomo, ma svolgono la funzione di “serbatoio”. Il vettore che materialmente trasmette il batterio all’uomo è la pulce Xenopsylla cheopis, ospite di molti roditori tra cui il Ratto nero.

Tuttavia, non è corretto parlare della peste al passato remoto, visto che l’ultimo caso in Italia si è avuto negli anni ’50, e neppure utilizzare il passato prossimo, dato che anche oggi nel mondo i casi di peste sono alcune centinaia ogni anno, soprattutto –ma non solo- nei paesi del terzo mondo (Madagascar, Libia, Vietnam ecc.). Nel 2013, un’epidemia di peste bubbonica ha colpito il Madagascar, causando oltre 40 morti, ed è tutt’ora in corso. Il patogeno, quindi, non è eradicato, ma la sua virulenza si è molto attenuata: rispetto ad alcuni secoli fa l’efficacia delle terapie antibiotiche è molto migliorata, così come la promiscuità fra uomini e ratti è ormai un lontano ricordo. Infine, gli insetticidi sono notevolmente più efficaci, e una delle strategie più efficaci contro la peste è proprio quella di distribuire insetticidi sui percorsi abituali dei roditori, sottoponendoli, in pratica, ad un trattamento “antipulci”.

Dunque, il ciclo ormai è ben noto, e funziona così: il ratto si ammala, la pulce lo punge e, succhiandone il sangue, acquisisce il patogeno, e lo trasmette all’uomo pungendolo a sua volta.

Ma siamo sicuri che nelle grandi epidemie di peste del Medio Evo le cose siano andate proprio così? È possibile che un meccanismo basato su due ospiti (ratto e pulce) possa aver prodotto disastri così imponenti?

In realtà, all’inizio del terzo millennio, alcuni studi scientifici hanno seriamente messo in dubbio che fosse stata la peste ad aver causato alcune delle più devastanti epidemie del Medio Evo in Europa. Come vedremo, ha così avuto inizio un appassionante giallo storico, che tramite la consultazione dei documenti dell’epoca ha portato alla formulazione di nuove, inquietanti ipotesi.

La peste