Rubrica di Dario n.10: Addio alle postazioni fisse? (Prima parte)

Uno dei capisaldi delle attività di controllo dei roditori degli ultimi decenni prevede la presenza di postazioni fisse rifornite di esca rodenticida. È il modus operandi che si riscontra nella quasi totalità dei casi: in sostanza, si dispongono delle postazioni nell’area oggetto del controllo, si colloca l’esca e si effettuano controlli periodici, verificandone il consumo ed integrandola o, all’occorrenza, sostituendola. Negli anni scorsi, le discussioni hanno riguardato principalmente la distanza fra le postazioni, il tipo di erogatore da utilizzare e le sue caratteristiche, il quantitativo e la natura dell’esca da porre all’interno e la frequenza dei controlli.

Di recente, tuttavia, si è inserito un ulteriore aspetto, che riguarda la durata temporale del trattamento. Ciò è evidente se si dà un’occhiata alle etichette dei rodenticidi. Da questo punto di vista, la dicitura in etichetta è, in effetti, inequivocabile. I trattamenti, si legge, non devono durare più di 6 settimane. Da un punto di vista della logica delle strategie di controllo dei parassiti, ciò è perfettamente coerente con i principi della strategia integrata: si devono usare una serie di metodi per giungere all’obiettivo, e l’uso di rodenticidi è solo uno –e neppure il principale- tra i diversi che possono essere messi in atto. Tuttavia, è indubbio che ciò costituisca un segnale dei cambiamenti che stanno per avvenire nel settore. Quindi, la lotta conto i roditori sta cambiando i suoi connotati: i rodenticidi possono essere usati per affrontare un problema temporalmente e spazialmente ben definito, risolto il quale è necessario adottare tecniche alternative, sia per il controllo che per il monitoraggio. In effetti, fino ad oggi le esche rodenticide nelle postazioni venivano usate per entrambi gli scopi: da una parte per abbattere le popolazioni di roditori, e dall’altra per valutare, attraverso il livello dei consumi, l’entità della popolazione presente e, di conseguenza, il successo delle azioni di controllo.

Il controllo dei roditori sta per cambiare in modo significativo, e l’evoluzione è già in atto. Come spesso succede, quando non è il settore stesso a darsi dei limiti ed evolvere spontaneamente, sono i vincoli posti dalle normative che guidano il cambiamento. In questo caso, è stata l’applicazione delle procedure della Direttiva Biocidi ad aver avuto importanti ricadute, i cui effetti, però, devono in gran parte ancora essere apprezzati.

Nel prosieguo dell’articolo cercheremo di rispondere ad alcune domande che inevitabilmente si pongono: perché si è deciso di intervenire in modo così dirompente? Come mai gli anticoagulanti sono finiti nell’occhio del ciclone? Ed infine: come devono regolarsi i professionisti nell’immediato futuro?

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Rubrica di Dario n.9: L’importanza di conoscere gli effetti pre-letali degli anticoagulanti

Una domanda si pone in relazione all’uso degli anticoagulanti: il fatto che la loro azione avvenga con un certo ritardo rispetto all’ingestione può presentare dei problemi dal punto di vista dell’efficacia del trattamento e del rischio per le specie non bersaglio?

Per quanto riguarda l’efficacia, l’azione ritardata, accanto all’innegabile vantaggio di non provocare la diffidenza nei confronti dell’esca, presenta un rovescio della medaglia: il roditore può continuare ad andare in giro a nutrirsi, contaminando l’ambiente e gli eventuali alimenti in esso presenti. Tale evidenza, nota anche come “dead mouse walking”, presenta l’ulteriore inconveniente di fare sì che i consumi di un individuo intossicato riguardino più postazioni e si protraggano per più giorni, con il risultato che il professionista incontra difficoltà per una precisa localizzazione del problema ed una sua tempestiva risoluzione. Ciò si accentua laddove vi sia la presenza di molti individui, dove la sommatoria di queste imprecisioni fa sì che non si riesca ad avere il polso dell’entità del problema e della sua risoluzione, inducendo il professionista, di fronte a consumi abbondanti e spazialmente diffusi, a sospettare, spesso impropriamente, la presenza di individui resistenti.

Inoltre, il progressivo diffondersi delle emorragie al cervello provoca la perdita della percezione del pericolo e del ritmo giorno-notte, con il risultato che gli animali vanno in giro in pieno giorno e senza adottare le abituali precauzioni di muoversi al coperto, diventando così assai vulnerabili alla predazione da parte di animali non bersaglio.

Ciò è aggravato dalla possibilità che hanno gli individui di nutrirsi per più giorni, ingerendo quindi grandi quantitativi di esca, ed accrescendo così il rischio per i predatori.

Inoltre, la visibilità di animali attivi in pieno giorno è comunque un effetto collaterale piuttosto sgradevole, che può presentare problemi per il cliente finale, e necessita di un’informazione accurata da parte del professionista.

Tutti questi inconvenienti possono essere gestititi efficacemente dal professionista grazie alla conoscenza dei meccanismi che li causano, adottando le dovute precauzioni in termini di corretta informazione ai clienti, e selezionando i principi attivi più sicuri per gli animali non bersaglio.

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Rubrica di Dario – N. 8: Ordinanza ministeriale (quasi) otto anni dopo: cosa condivido e cosa cambierei (Seconda e ultima parte)

Ecco, la mancanza di qualunque possibilità di deroga (da richiedere caso per caso, magari alla ASL locale) per motivi di carattere economico o –soprattutto- sanitario è un punto molto critico del provvedimento.

Ci sono poi alcune sviste, una delle quali piuttosto evidente, come nel caso dell’obbligo per i produttori di inserire nelle esche una sostanza amaricante, che la renda sgradevole per esseri umani e animali non bersaglio. La disposizione, di fatto, è inapplicabile, visto che i topi e ratti hanno una soglia di percezione dell’amaro più bassa di cani, gatti e altri animali domestici, e la logica conseguenza è che un’esca dal gusto sgradevole per il cane lo sarebbe ancor più per i roditori, con effetti evidentemente controproducenti per il successo delle attività di controllo. Purtroppo, ciò ha fatto sì che si diffondesse la falsa credenza in merito alla presunta sicurezza delle esche per gli animali non bersaglio, come purtroppo erroneamente riportato anche sulle etichette dei rodenticidi.

Anche l’unica deroga prevista è di fatto inapplicabile. Si tratta dei casi in cui, per proteggere le specie di uccelli in via di estinzione, si prevede l’eradicazione dei ratti dalle isole: l’ordinanza prevede che, sulla base di precise garanzie (interventi svolti sotto il controllo dell’area protetta, rimozione delle esche rinvenute dopo il trattamento, etc), si possa derogare dall’obbligo di porre le esche nelle postazioni. Il problema è che è scritto che le esche utilizzate devono contenere “un principio attivo a bassa persistenza”, e cioè non può essere un anticoagulante della seconda generazione. Benché neppure gli anticoagulanti della prima generazione (warfarin, clorofacinone) possano essere definiti a bassa persistenza, tali principi attivi, ancor più nella formulazione in pellets, adatta alla distribuzione aerea, non sono da anni disponibili sul mercato, e comunque non sono sufficientemente efficaci. Per risolvere il problema basterebbe cambiare la dicitura da “principio attivo a bassa persistenza” a “biocida a bassa persistenza”, permettendo quindi di utilizzare principi attivi efficaci, ma inclusi in formulazioni rapidamente deperibili.

In conclusione, accanto all’innegabile progresso che ha innescato nel modo di lavorare, alcune rigidità ed imperfezioni renderebbero opportuna una modifica dell’ordinanza, con l’obiettivo di avvicinarsi maggiormente alle reali esigenze del settore, ma anche per garantire che i trattamenti, oltre ad essere più sicuri, siano anche più efficaci.

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Rubrica di Dario – N. 7: Ordinanza ministeriale (quasi) otto anni dopo: cosa condivido e cosa cambierei (Prima parte)

Sono trascorsi quasi otto anni da quando, nel febbraio 2008, un provvedimento del tutto inaspettato emanato dal Ministero della Salute ha di fatto rivoluzionato il settore del controllo dei roditori in Italia. Si tratta di un’ordinanza ministeriale, un provvedimento piuttosto in basso nella scala delle gerarchie delle fonti normative. Sebbene le ordinanze siano caratterizzate dall’urgenza di porre rimedio a un problema di stretta attualità, in questo caso essa è stata reiterata numerose volte, seppure con alcuni cambiamenti, ed è tuttora vigente. Paradossalmente, tale provvedimento non era focalizzato principalmente sugli interventi di controllo contro i roditori, ma tentava di arginare il triste fenomeno dell’avvelenamento doloso degli animali domestici e quelli selvatici, troppo spesso vittime di bocconi avvelenati, con una frequenza che in Italia è considerata –a ragione- allarmante. Nell’intervenire contro tale fenomeno criminale, l’ordinanza dettava anche disposizioni per le derattizzazioni, imponendo l’uso di erogatori di esca in ogni circostanza.

È innegabile che ciò abbia comportato un netto miglioramento nello standard delle operazioni di controllo. È bene ricordare, infatti, che fino ad allora si assisteva non di rado a distribuzioni di esche rodenticide non protette, nel migliore dei casi celate in qualche modo alla vista, ma troppo spesso disponibili anche per specie non bersaglio. Dal punto di vista commerciale, ciò costituiva un grosso problema soprattutto per le (molte) imprese di elevata professionalità, che non accettando di operare con tali modalità subivano inevitabilmente la concorrenza di imprese senza scrupoli.

Il risultato, quindi, almeno per quanto riguarda il modus operandi delle imprese del settore del controllo dei roditori (solo di questo aspetto parlerò in questa sede), è stato largamente positivo.

Tuttavia, se si esamina con cura il testo, si capisce che è stato scritto da chi non ha totale dimestichezza con le problematiche specifiche e con gli aspetti tecnici propri del settore, comportando inevitabilmente alcuni problemi.

Il primo punto critico è costituito dall’eccessiva rigidità: si tratta infatti di un provvedimento che non fa distinzione alcuna tra i contesti in cui si opera, dettando le stesse disposizioni dal campo di carciofi alla sala operatoria di un ospedale.

A questo riguardo, una maggiore prudenza e flessibilità non avrebbe guastato. Di fatto, si rende inattuabile il controllo, anche localizzato e temporalmente definito, delle arvicole in agricoltura, animali che possono presentare rilevanti impatti economici su frutteti e colture in pieno campo (patate, carciofi, etc), ma che per loro caratteristiche comportamentali mai entreranno in una postazione esca. Si rende complicato, se non in alcuni casi inattuabile, il controllo nei contesti più degradati, quali gli insediamenti umani in ambiti periferici particolarmente degradati (purtroppo frequenti nelle nostre periferie urbane), dove le persone si trovano spesso a vivere in stretta promiscuità con i ratti. In questi casi, difficilmente si otterranno risultati senza una distribuzione delle esche nelle tane dei ratti.

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Rubrica di Dario – N.6: Come scegliere la formulazione (Seconda e ultima parte)

Con queste premesse, sembrerebbe un compito facile scegliere la formulazione, ma in realtà non lo è. D’altronde, se così non fosse, chiunque potrebbe efficacemente improvvisarsi disinfestatore, anche un padre di famiglia, cui basterebbe entrare in una rivendita di prodotti agricoli o in una ferramenta per ottenere risultati paragonabili a quelli di un professionista.

È quindi necessario che i professionisti stessi acquistino consapevolezza della complessità della scelta di un prodotto, trappola, erogatore o formulato che sia, possibilmente con argomentazioni che vadano al di là di un generica constatazione del tipo: “ha sempre funzionato”, oppure: “uno vale l’altro”, e quindi: “tanto vale scegliere quello che costa di meno”.

I criteri per operare la scelta della formulazione devono necessariamente basarsi sulla sicurezza dell’esca e sulla sua appetibilità, ma anche la durevolezza è un fattore importante, soprattutto laddove gli interventi siano eseguiti ad un mese o più di distanza.

I blocchetti offrono la massima sicurezza, visto che possono essere fissati con facilità, e il roditore non può portarne via che poche briciole. Ciò permette anche di valutare i consumi con buona accuratezza: ciò che manca nell’erogatore è stato necessariamente consumato. Quindi, pesando il blocchetto residuo si ottiene una stima affidabile del quantitativo consumato. Le bustine, dal canto loro, possono sì essere fissate, ma anche strappate e portate via, rendendo così più difficile valutarne il consumo effettivo.

L’appetibilità dei blocchetti, generalmente buona, è però mediamente inferiore rispetto alle bustine. E non potrebbe essere diversamente, visto che i blocchetti contengono paraffina, sia pure in piccole quantità. Quindi, in presenza di forte competizione alimentare (ad es. mangimifici, allevamenti), la scelta potrebbe cadere proprio sulle bustine di pasta.

Dimentichiamo invece ogni valutazione sul colore e sull’aroma. Per quanto riguarda il colore, i roditori, non avendo una gran vista, non notano differenze nella colorazione di un’esca. Sono poi sempre stato convinto che l’aroma abbia importanza solo per il professionista, che si sente più sicuro nell’aprire una confezione da cui fuoriesce un intenso profumo di fragola oppure di nocciola. Si tratta infatti di aromi artificiali, realizzati per l’odorato umano e non per quello dei roditori, i quali sono attratti solo dall’odore degli appetenti, essenzialmente dai cereali.

Il terzo aspetto è costituito dalla durevolezza, e cioè dal lasso di tempo per il quale l’esca mantiene una sufficiente appetibilità. Nel caso in cui gli interventi siano frequenti, questo fattore diventa trascurabile, altrimenti la durata dipende dalle condizioni ambientali. I blocchetti sono più resistenti all’umidità, alla polvere e alle basse temperature, e in condizioni normali possono mantenersi appetibili per anni, mentre le bustine di pasta si mantengono meglio in presenza di temperature elevate, ma essendo composte di grassi, la loro durata è comunque inferiore.

Infine, visto che talvolta si rende necessario cambiare il principio attivo (ad esempio perché si ha il sospetto che la popolazione di roditori sia resistente a quello utilizzato), diventa importante considerare i principi attivi con cui è disponibile una data formulazione. Sarebbe auspicabile che l’esca fosse il più simile possibile a quella da sostituire, meglio se dello stesso produttore, ed è quindi bene affidarsi ad una formulazione che sia disponibile in almeno due distinti principi attivi, uno più sicuro (bromadiolone o difenacoum, meno tossici per le specie non bersaglio) e uno più efficace (ad es. brodifacoum).

Rubrica di Dario – N.5: Come scegliere la formulazione (Prima parte)

La formulazione delle esche rodenticide è un aspetto chiave del controllo dei roditori. Per formulazione si intende la matrice alimentare nella quale il principio attivo viene inserito affinché abbia probabilità di essere ingerito dai roditori. Fino a dieci anni fa, nei cataloghi dei distributori di prodotti per il controllo dei parassiti erano presenti parecchie formulazioni diverse, ognuna di esse disponibile per numerosi principi attivi. La Direttiva Biocidi ha però cambiato le carte in tavola, e oggi esistono molte meno formulazioni, meno principi attivi e, di conseguenza, meno combinazioni formulazione-principio attivo. La stessa Direttiva ha, di fatto, molto limitato anche la possibilità di variare gli ingredienti visto che, una volta registrata, una formulazione deve rimanere sostanzialmente invariata nei suoi coformulanti.

Ecco quindi che i margini di manovra dei professionisti si sono molto ridotti, e una conoscenza dei materiali disponibili diventa fondamentale.

Ma quali sono le caratteristiche in base alle quali valutare le diverse formulazioni?

Fino a pochi anni fa ne distinguevamo tre, adesso ne dobbiamo necessariamente aggiungere una quarta. Vediamo quali sono e perché se ne è aggiunta una nuova.

Cominciamo col dire che le formulazioni, negli ultimi venti anni, non hanno visto sostanziali novità, se non per l’uscita dal mercato di alcune di esse.

Non ci sono più i liquidi concentrati che, nonostante non potessero essere considerati una formulazione essi stessi, offrivano comunque la possibilità di creare le esche a proprio piacimento, inserendo gli ingredienti che di volta in volta si ritenevano più adatti al contesto specifico.

Si potevano preparare quindi esche a base di pesce, frutta o nocciole, talvolta anche liquide, a base di acqua o succo di frutta. Tali esche estemporanee erano molto utili in presenza di forte competizione alimentare.

Sono quasi scomparsi i pellets, così come le bustine di cereali o di sfarinati. Non si trovano più i paraffinati puri (formulati in cilindri o dadini) e neppure i gel, i quali, a differenza del settore degli insetticidi, nel campo del controllo dei roditori non hanno mai fatto breccia. Poco diffusi risultano cerali e fioccati.

Di nuovo, come dicevamo, c’è poco o nulla. Ciò che è profondamente mutato è la proporzione in cui i pochi formulati rimasti si dividono il mercato, oggi pressoché monopolizzato da due sole formulazioni.

La prima è costituita dai blocchetti realizzati con procedimenti di estrusione, i quali hanno espanso notevolmente la loro offerta. La seconda è rappresentata dalle bustine di pasta, un formulato ideato e sviluppato proprio in Italia, ma in forte diffusione anche all’estero, che incontra sempre il favore dei professionisti. Le altre formulazioni, essenzialmente costituite da sfarinati e pellets, hanno un’importanza ormai piuttosto marginale.

Ma quali sono le caratteristiche da valutare nella scelta di una formulazione?

formulazioni

Rubrica di Dario – N.4: Come scegliere il principio attivo (Seconda e ultima parte)

Gli anticoagulanti presenti oggi sul mercato sono sostanze molto affini, sia nella struttura chimica che nel meccanismo d’azione. Tuttavia, presentano caratteristiche assai diverse, sia in termini di tossicità per le specie bersaglio e non bersaglio, sia di possibilità di sviluppo della resistenza, e la conoscenza di tali aspetti è il presupposto essenziale dell’attività di un professionista del pest control. Non è superfluo rilevare che la differenza fra un professionista e un utente occasionale, ad esempio un agricoltore, è proprio nella capacità di discernere le differenze fra le varie sostanze, conoscendone pregi e difetti, e valutandoli a seconda del contesto in cui si opera.

Per orientarci nella loro scelta, dobbiamo valutare tre diversi aspetti:

1) efficacia contro le specie bersaglio

2) rischi per le specie non-bersaglio

3) possibilità di sviluppo di resistenza

Il primo punto, benché fondamentale, non può tuttavia essere valutato senza considerare il secondo. In sostanza, la scelta del principio va fatta considerando entrambi gli aspetti.

Spieghiamoci meglio. Se io lavoro in un allevamento di maiali o in un giardino nel quale vivono dei cani, o semplicemente in una zona di campagna o in una villa urbana con presenza di rapaci (poiane, falchi, gufi, barbagianni ecc.) o altri predatori di topi e ratti (faine, martore, donnole ecc.), mi devo porre il problema dell’esposizione al rodenticida anche di questi animali, che potrebbero nutrirsi di ratti intossicati. Quindi, dovrò selezionare un principio attivo efficace e nel contempo sicuro.

In tali condizioni, utilizzare brodifacoum o flocoumafen, molto potenti e tossici anche per la fauna non bersaglio, è estremamente rischioso. In queste situazioni, è meglio puntare su rodenticidi meno potenti, come bromadiolone e difenacoum.

Una domanda potrebbe sorgere spontanea: perché non considerare anche i rodenticidi della prima generazione ancora presenti sul mercato (warfarin, coumatetralyl, clorofacinone)? La risposta si articola in questi quattro punti principali:

I. la loro efficacia è significativamente inferiore rispetto ai rodenticidi della seconda generazione;

II. per essere efficaci, necessitano di essere ingeriti per più giorni. Quindi, i quantitativi distribuiti sono maggiori e di conseguenza anche la loro presenza nell’ambiente;

III. questi principi attivi sono a forte rischio di sviluppare resistenza; è questo un problema concreto, da non sottovalutare assolutamente, ed esplicitamente considerato nelle etichette dei rodenticidi.

IV. le formulazioni presenti sul mercato sono ormai pochissime, e la loro reperibilità è difficile.

Rimandando la trattazione dell’argomento ad un articolo specifico, potremmo schematizzare così la questione:

– se il professionista sospetta o è certo della presenza di individui resistenti, allora è bene evitare l’uso di anticoagulanti della prima generazione;

– per quanto riguarda quelli della seconda generazione, quelli ritenuti immuni dal fenomeno sono essenzialmente i tre più potenti, vale dire brodifacoum, flocoumafen e difethialone.

– bromadiolone e difenacoum, invece, sono principi attivi dalle numerose caratteristiche positive (efficacia e tossicità nei confronti delle specie non bersaglio), consigliabili nella maggior parte dei trattamenti. Solo nei casi di comprovata resistenza (dimostrati in alcuni paesi europei), si consiglia quello dei principi attivi più tossici e potenti come brodifacoum e flocoumafen, con l’accortezza di distribuire bassi quantitativi di esca, puntando invece su interventi più frequenti, applicando cioè la distribuzione “ad impulsi”.

Rubrica di Dario – N.3: Come scegliere il principio attivo (Prima parte)

Il principio attivo è l’ingrediente fondamentale dell’esca rodenticida, e cioè la sostanza che, se ingerita in una dose sufficiente dall’animale bersaglio, è in grado di causarne la morte.

I principi attivi utilizzati nel corso della storia sono i più disparati. Testimonianze storiche parlano dell’uso di estratti di piante (soprattutto l’elleboro) nell’Antica Roma per uccidere topi e ratti, mentre l’estratto di scilla rossa (Urginea maritima), una pianta mediterranea, è stato impiegato fino al secolo scorso per lo stesso scopo. Fino agli anni ’50 del secolo scorso i rodenticidi avevano tutti azione acuta, e cioè portavano a morte il roditore dopo poche ore dall’ingestione della dose letale di tossico. Ciò presentava l’inconveniente di suscitare ben presto nella popolazione una forte diffidenza nelle esche tossiche, rendendone difficile il controllo.

Due eventi indipendenti, uno risalente a più di cinquant’anni fa, l’altro ben più recente, hanno però cambiato drasticamente lo scenario di riferimento dei rodenticidi.

Il primo è stato l’avvento degli anticoagulanti, una classe di principi attivi derivati sintetici delle idrossicumarine, i quali, a partire dagli anni ’50, hanno trovato crescente diffusione nel mercato mondiale. Paradossalmente, il successo di tali principi attivi risiedeva (e risiede tutt’ora) nel ritardo con cui il meccanismo d’azione provoca dapprima il malessere e successivamente la morte dell’individuo. Tale ritardo, quantificabile in un lasso di tempo di alcuni giorni (tra 2 e 7) fa sì che gli altri individui del nucleo familiare o dell’intera colonia non siano in grado di associare l’ingestione del cibo con il malore, e questo evita l’insorgere di una diffidenza verso l’esca rodenticida.

Il secondo evento, assai più recente, è costituito dall’entrata in vigore della Direttiva Biocidi, la cui applicazione ha, di fatto, estromesso dal mercato tutti i rodenticidi presenti fino a pochi anni fa sul mercato (fosfuro di zinco, norbormide), ad eccezione degli anticoagulanti.

Ciò ha fatto sì che, nonostante gli innegabili problemi connessi con il loro uso, ad oggi non vi sia alcuna alternativa concreta all’uso degli anticoagulanti, con la conseguenza che la scelta del principio attivo deve necessariamente ricadere su una sostanza di questa famiglia.

Tutti gli anticoagulanti sono provvisti dello stesso meccanismo d’azione: essi bloccano la sintesi epatica della vitamina K, un fattore essenziale della coagulazione. Tuttavia, la presenza di scorte di tale sostanza nel fegato garantiscono all’individuo un limitato periodo di autonomia, quantificabile appunto in alcuni giorni. Una volta terminate le scorte “endogene”, l’individuo avverte i primi sintomi, consistenti in emorragie localizzate in varie parti del corpo; l’estendersi delle emorragie agli organi vitali provoca prima il malore e successivamente la morte.

Nel prossimo contributo entreremo nel cuore del problema, e parleremo di come si sceglie il principio attivo rodenticida.

Foto: Urigea marittima sull’isola di Zannone – Dario Capizzi

Rubrica di Dario – N.2: Associare due principi attivi migliora l’efficacia di un rodenticida?

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L’associazione di più principi attivi è una pratica diffusa nel pest control, e riguarda per lo più famiglie di biocidi diverse dai rodenticidi, soprattutto gli insetticidi. In questi ultimi, infatti, si assiste spesso alla combinazione di due principi attivi nello stesso formulato, e ciò viene fatto per rispondere a due diverse esigenze, combinando quindi sostanze diverse. Il primo obiettivo è quello di combinare un’azione abbattente ad una residuale, garantendo quindi sia una buona efficacia iniziale del biocida che un suo effetto prolungato. Il secondo è quello di impedire lo sviluppo di fenomeni di resistenza, ed in questo caso ad essere abbinati sono soprattutto principi attivi di diverse famiglie. La probabilità che un individuo sia resistente a due diverse famiglie di principi attivi, infatti, è molto bassa.

Viene a questo punto spontaneo domandarsi se questi ragionamenti siano applicabili o meno anche per i rodenticidi, soprattutto in considerazione del fatto che in commercio esistono formulati che prevedono proprio l’abbinamento di due principi attivi. Negli scorsi decenni in commercio esistevano formulati che contenevano l’abbinamento di warfarin e sulfachinossalina, un farmaco veterinario, sulla cui maggior efficacia rispetto alla formulazione contenente il solo warfarin, tuttavia, non vi era accordo unanime.

Attualmente vi sono in commercio formulati che abbinano due differenti anticoagulanti, il cui valore aggiunto, a detta dei distributori, consisterebbe nella minore probabilità di sviluppare resistenza. In realtà, l’associazione di due principi attivi anticoagulanti non comporta alcun vantaggio. Si tratta, infatti, di principi attivi della stessa famiglia, provvisti del medesimo meccanismo d’azione, la cui associazione non garantisce quindi alcun beneficio aggiuntivo rispetto all’azione del più potente dei due per aggirare il fenomeno della resistenza.

Almeno in teoria, l’unica associazione che potrebbe avere senso (fermo restando che necessiterebbe di essere opportunamente sperimentata) sarebbe quella fra un anticoagulante ed uno dei vecchi veleni acuti, provvisti, questi sì, di meccanismi d’azione differenti. Tuttavia, come noto, i rodenticidi acuti non sono disponibili sul mercato, e tale possibilità rimane, appunto, solo teorica. Qualora fosse possibile, comunque, comporterebbe la rinuncia al principale punto di forza degli anticoagulanti, e cioè quello del ritardo con cui si manifestano i sintomi dell’intossicazione rispetto all’ingestione della dose letale, che è poi la chiave del loro successo.

Rubrica di Dario – N.1: L’importanza di pensare come un topo

Sono passati quasi trent’anni da quando, giovane studente del corso di laurea in scienze forestali, ho cominciato ad occuparmi dei problemi causati dai roditori alle attività umane, sotto la guida esperta ed autorevole di Luciano Santini, che in quegli anni (siamo nella seconda metà degli anni ’80) insegnava zoologia forestale all’Università della Tuscia, i cui insegnamenti mi sono sempre stati di grande utilità, e con il quale ho il piacere di collaborare e confrontarmi ancora oggi.

Inizialmente, mi occupai del problema dei danni alle semine forestali, poi dopo la laurea mi interessai di altri aspetti, dalle industrie alimentari ai centri urbani, dall’agricoltura alle isole. Sebbene possa dire di avere ormai accumulato una discreta esperienza a riguardo, mi sono dato un regola aurea da cui non trasgredire, che posso sintetizzare così: mai smettere di imparare.

La ragione è semplice: considerarsi arrivato, senza necessità di aggiornare continuamente le proprie conoscenze, ti induce inevitabilmente a ripetere sempre le stesse cose e sempre peggio, ad affrontare i nuovi problemi sempre con lo stesso approccio, mentre normative e materiali cambiano, e con loro le esigenze e le aspettative di chi ti chiama a risolvere un problema.

Da un lato leggo e mi aggiorno il più possibile e, pur non rinunciando mai a dire la mia, che sia un convegno o una rivista scientifica, dall’altro cerco sempre di stare a sentire chi ho di fronte, nella convinzione che la maggior parte delle cose che so le ho imparate sul campo, ascoltando i problemi e valutando le soluzioni –giuste o sbagliate che fossero- di volta in volta adottate per risolvere un problema. In questo senso, il confronto con i professionisti è stato fondamentale: sono loro ad avere il polso dei problemi, dei materiali e dei prodotti, ma anche delle ricadute normative e delle esigenze dei clienti finali. Da loro mi arriva sempre un feedback specializzato, spesso di alto livello, analizzato dal punto di vista di chi un problema lo deve risolvere, e non solo raccontare.

C’è un’ultima considerazione che vorrei fare: nel corso di questi anni ho imparato quanto sia decisivo capire come ragionano e come percepiscono l’ambiente le specie che cerchiamo di combattere. Prevedere quali saranno i percorsi, le vie d’accesso e le fonti alimentari è cruciale nell’impostare la strategia, così come identificare le aree più favorevoli e quelle che lo sono meno. In altre parole, parafrasando Oscar Wilde, l’importanza di pensare come un topo!

Dario